venerdì 27 gennaio 2017

Un problema alla retina indice di una predisposizione al Parkinson?





Un problema alla retina indice 
di una predisposizione al Parkinson?

L’alterazione genetica maculare potrebbe essere il campanello d’allarme di una carenza nella produzione di dopamina, alla base del Parkinson

di Cesare Peccarisi

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 studio dei NIH, i National Institutes of Health statunitensi, appena pubblicato sul Journal of Biological Chemistry dai ricercatori della Duke e della Cleveland Universities diretti da Paulo Ferriera, ha individuato una predisposizione genetica che favorisce lo sviluppo dell’alterazione del pigmento retinico dell’occhio che porta a degenerazione maculare senile, malattia dell’occhio che colpisce oltre un milione di italiani (12% ha fra i 60 e i 70 anni, il 20-30% intorno ai 75, dopo i 90 si arriva al 60%) alterando la cosiddetta macula, l’area centrale della retina più sensibile agli stimoli luminosi.
Il fattore genetico
Finora erano stati individuati vari fattori di rischio come l’età over 55, essere di sesso femminile o di razza bianca, abuso di alcool e fumo, eccessiva esposizione a luce solare, ipertensione, obesità e dieta ricca di grassi e colesterolo. Da tempo si sospettava il coinvolgimento di un fattore genetico, ma ora che è stato individuato, i ricercatori americani hanno avuto anche l’inattesa sorpresa di scoprire che tale alterazione, un’ablazione della proteina chiamata Ranbp2, è legata anche alla malattia di Parkinson perché l’epitelio retinico sano produce levodopa, un precursore del neurotrasmettitore dopamina, la cui carenza è notoriamente alla base del disturbo del movimento che tutti ricordano come malattia del tremore. L’alterazione retinica potrebbe essere il campanello d’allarme di una ridotta produzione dopaminergica anche nei nuclei della base, le sedi cerebrali che determinano malattia di Parkinson, tant’è vero che un terzo circa dei casi con alterazione retinica ha sviluppato anche tremore parkinsoniano nel giro di 4 settimane.
malattia di Parkinson e la degenerazione maculare, ma non solo.

sabato 14 gennaio 2017

In Italia migliora l’assistenza agli anziani con diabete

In Italia migliora l’assistenza agli anziani con diabete

Una persona con diabete di tipo 2 su tre è over 65, una su quattro over 75. Presentata oggi, al 50° Congresso della European association for the study of diabetes a Vienna, l’analisi dei risultati degli Annali Amd dell’Associazione Medici Diabetologi che ha fotografato 8 anni di assistenza e cura agli over 75

17 SET - In Italia su 3 milioni di persone colpite da diabete di tipo 2, due terzi hanno un’età superiore ai 65 anni, e il 25% è over 75. Un popolo di anziani che, alla luce del progressivo invecchiamento della popolazione è destinato a crescere. Per questo bisogna alzare il livello di attenzione non solo sulla cura e l’assistenza dell’anziano con diabete, ma soprattutto sulla prevenzione delle complicanze strettamente correlate alla malattia.
E in Italia qualcosa si sta muovendo. L’assistenza agli over 65 con diabete è migliorata come dimostra l’analisi degli Annali Amd presentata al 50° Congresso della European Association for the Study of Diabetes a Vienna.

Lo studio raccoglie oltre 500mila cartelle cliniche di persone con diabete, assistite in quasi la metà dei circa 650 centri diabetologici nazionali, e ha fotografato la qualità dell’assistenza dal 2004 al 2011.

Grazie allo score Q - indice ideato da Amd in collaborazione con la Fondazione Mario Negri Sud che valuta l’efficienza delle cure e dell’assistenza prestate, e conseguentemente l’efficacia nel prevenire le complicanze tipiche del diabete, dall’infarto, all’ictus, ai disturbi della vascolarizzazione, alla mortalità - si è visto che, in otto anni è quasi raddoppiata, dal 19,2% al 35,7%, la percentuale di over 75 con score Q superiore a 25, valore soglia che identifica la qualità delle cure attese.

“Come diabetologi  siamo ben consci della necessità di alzare il livelo di attenzione verso gli anziani con diabete – ha detto Antonio Ceriello, Presidente dell’Associazione medici diabetologi, l’organizzazione cui fanno riferimento i medici diabetologi operanti nei centri del Ssn – nel 2012, infatti, partendo dal database Annali Amd, abbiamo pubblicato il primo Rapporto ‘Anziani con diabete’, che forniva un’importante, e forse unica, fotografia sull’assistenza riservata a questa particolare categoria. Oggi, siamo in grado di presentare l’analisi dell’evoluzione della qualità dell’assistenza prestata dal 2004 al 2011”

L’indagine si è concentrata sulla particolare categoria degli over 75, oltre 145mila persone i cui dati sono registrati nel database Annali Amd. Persone con un maggior tasso di mortalità, maggiori disabilità e malattie associate e che quindi richiedono particolari competenze ed un approccio personalizzato alla cura.

“È migliorato lo score Q – ha spiegato Riccardo Candido, diabetologo presso il distretto 3 di Trieste e componente dei gruppi Amd dedicati alla terapia personalizzata e all’anziano – tra il 2004 e il 2011 è quasi raddoppiata, dal 19,2% al 35,7%, la percentuale di over 75 con score Q superiore a 25. Si consideri che questa è la soglia che identifica la qualità delle cure attese; un valore superiore a 25 indica una situazione migliore dello standard; tra 25 e 15 aumenta del 20% il rischio di complicanze, mentre sotto 15, il rischio cresce all’80%”.

Il risultato è frutto di numerose variabili: “È cresciuta l’attenzione alla valutazione non solo del grado di controllo della glicemia – ha aggiunto Candido – ma anche della pressione arteriosa, dei livelli di colesterolo e trigliceridi, della microalbuminuria, indice di danno ai reni. Di pari passo sono migliorati i risultati clinici: si è assistito a una maggior personalizzazione dell’obiettivo glicemico e a una marcata riduzione (-21,5%) del numero di anziani con controllo della glicemia scadente; è cresciuta del 29,8% la quota di anziani con valori di pressione arteriosa inferiori a 150/90 mmHg e ben dell’80,3% quella delle persone con colesterolo LDL inferiore a 100 mg/dl”.

Non solo, è migliorata anche l’appropriatezza terapeutica. La quota di  anziani con diabete in cura con sulfaniluree, farmaci ad elevato rischio di ipoglicemia è, infatti,  in costante riduzione, “Va notato, tuttavia – ha concluso  Candido – come l’utilizzo di questa classe di farmaci sia ancora elevato e non del tutto appropriato e al contrario sia bassa la percentuale di pazienti curati con le incretine, in particolare gli inibitori del DPP4 meglio indicati per la gestione dell’anziano con diabete”.

assistere un malato di parkinson Consigli per chi assiste il malato

assistere un malato di parkinson

Consigli per chi assiste il malato



http://www.parkinson.it/consigli-per-chi-assiste-il-malato.htmlChi siete

malatoVoi siete quelli che, grazie ai vostri sforzi e alla vostra tenacia, riescono a fornire le cure necessarie ad un familiare o ad un amico malato, disabile o debole attraverso attività quotidiane di cura della casa, igiene personale e assistenza medica. Al di là del tipo di assistenza fornita, tutti voi vi trovate a donare agli altri incoraggiamento, comprensione, un senso di appartenenza, speranze e un significato alla propria esistenza. Qualche dato statistico:
- Nel 33% dei casi vi è una sola persona che assiste un familiare malato
- Il 72% sono donne
- Tra gli uomini più frequentemente troviamo mariti e figli. I coniugi sono per lo più coloro che si occupano dei loro partner. Se non sono in grado di farlo, vengono sostituiti da figli o nuore. - Secondo le statistiche, le persone che in casa si occupano di familiari malati forniscono l’80% dell’assistenza medica globale e il 90% circa di tutti i servizi domestici.
- Tra i coniugi più anziani che svolgono quest’attività, almeno la metà ha, a sua volta, problemi di salute.
- Almeno un terzo sono lavoratori e sommano un’attività all’altra.
- L'80% fornisce una assistenza media di 4 ore al giorno per 7 giorni la settimana. Di fronte a casi particolarmente gravi (malattia di Alzheimer, per esempio) si arriva a più di 40 ore settimanali.
- Molti pensano che infermieri o case di riposo forniscano il principale aiuto ai malati, ai deboli e ai disabili. Invece la maggior parte di loro viene assistita a casa, dalla famiglia. Anche chi è ricoverato in istituti, continua a ricevere supporto e aiuto dalle proprie famiglie.
- Voi siete “testa, cuore e mani” per la famiglia e la società. Il vostro ruolo è estremamente importante per il benessere dei membri della vostra famiglia e per la società, perché attraverso di voi, chi ha gravi problemi di salute riceve dignitosamente il conforto e l’assistenza di cui necessita.

Sfide e stress

 Certamente una delle maggiori sfide da affrontare è quella di gestire i vostri compiti assistenziali senza trascurare le altre attività che richiedono tempo, attenzione ed energia. La situazione diventa più difficile quando gli impegni sono tanti o emotivamente coinvolgenti. Assistere un malato può essere molto soddisfacente, in quanto espressione di amore per qualcuno importante per noi, ma può anche diventare psicologicamente e fisicamente esasperante. Se l’impegno richiesto diventa eccessivo, l’energia, il buon umore e la capacità di far fronte ai problemi, si ridurranno e potrete sentirvi stressati. Questa sensazione varierà di giorno in giorno a seconda dello stato di salute dell’infermo, del suo e del vostro umore, nonché delle energie su cui potete contare. Certamente peggiora di fronte a situazioni sgradevoli, incontrollabili o incerte, in presenza di sostanziali cambiamenti inaspettati e di inevitabili frustrazioni. Certamente sperimenterete stress. Per riuscire a gestire la situazione dovete imparare a bilanciare le richieste che vi pervengono con le vostre risorse. Imparate a riconoscere, anticipare e fronteggiare gli impegni e lo stress rinforzando l’autostima, le capacità di risolvere problemi e ricorrendo ad un supporto esterno adeguato. In questo capitolo troverete una serie di consigli che vi possono aiutare. Metteteli in pratica.

Vivere e non solo sopravvivere

Cosa ci vuole per vivere e non solo sopravvivere, specialmente in circostanze difficili? Essere sotto stress colpisce e riduce la vostra vitalità e il senso di soddisfazione. Fare auto-assistenza significa incrementare la propria resistenza, imparando a ridurre i pensieri negativi, coltivando l’autostima e cercando di inserire nella propria vita qualche attività piacevole.

Evitare l'eccessiva autocritica

Vi colpevolizzate ogni volta che le cose vanno male e pensate sia merito altrui quando vanno bene? Vi bisbigliate parole di incoraggiamento o aspre critiche? Le risposte a queste domande indicheranno se siete eccessivamente autocritico. Anche se non lo siete tendenzialmente, situazioni stressanti come quelle che state vivendo possono aumentare il rischio di scivolare verso pensieri negativi. Essi generano ansietà o depressione e riducono le capacità funzionali e le risorse necessarie a risolvere problemi. Se vi sentite così e siete incapaci di reagire, provate a seguire questi consigli:
1. Fate attenzione se a voi stessi rivolgete più incoraggiamenti o più autocritiche.
2. Tenete d’occhio le frasi autocritiche del tipo: “avrei dovuto”..., “sono troppo”..., “dovrei essere”..., “non sono mai”...
3. Smettete di pensare a voi stessi in modo negativo.
4. Sostituite i pensieri negativi con altri più razionali che tengano conto della realtà della situazione, riconoscano la vostra forza e i vostri limiti, e identifichino possibili attività alternative o nuove prospettive.
5. Se vi accorgete di dubitare fortemente di voi stessi o di autocriticarvi, chiedete un’opinione obiettiva ad un amico, un assistente o un terapeuta.

Incrementare la propria autostima

Possedere autostima significa sapere nel profondo del cuore che siete un essere umano, competente e in grado di essere amato. Ciò vi aiuta a credere in voi stessi. La mancanza di autostima vi porta a sentirvi indifesi, incerti, isolati ed ansiosi. Un’indagine ha mostrato che l’autostima è indispensabile al proprio benessere e alla capacità di affrontare lo stress. Per aiutarvi a costruire e mantenere l’autostima, abbiamo individuato tre strategie:
1. Passate del tempo con la vostra compagnia preferita. È importante passare del tempo con persone che vi apprezzano, vi aiutano a credere in voi stessi, riconoscono le vostre capacità e si fidano delle vostre opinioni. Quante volte vi incontrate e parlate o mantenete rapporti attivi con loro? Cosa vi impedisce di vederli? Cosa potete fare per facilitare questi contatti?
2. Datevi una pacca sulla spalla. Autorizzatevi a vedere in voi i lati positivi che gli altri vi riconoscono, imparate ad apprezzare le vostre capacità e la vostra forza interiore.
3. Evitate i “veleni” che potrebbero ridurre l’auto-stima. Si può vivere in modo soddisfacente nonostante i conflitti, la mancanza di rispetto, le vessazioni degli altri. Questi messaggi distruttivi tendono a “bloccare” anziché “rinforzare”. Evitate di frequentare coloro che, con le loro valutazioni, ridurrebbero la vostra autostima, cercate di seguire questi consigli:
- Come già detto, passate del tempo regolarmente con chi crede in voi e vi trova simpatico.
- Evitate di minimizzare gli altrui apprezzamenti nei vostri confronti.
- Prendete coscienza della vostra forza interiore e di quanto vi sia servita in passato.
- Ogni giorno richiamate alla memoria qualcosa di cui essere fieri.
- Ignorate le critiche inutili invece di prenderle a cuore.
- Imparate a rispettarvi, così come rispettate gli altri.
- Evitate la compagnia di chi insidia la vostra autostima.
- Non minimizzate le vostre capacità e ciò che avete da offrire agli altri.

Divertitevi

Nella vostra attività di assistenza avete certamente sperimentato un aumento di tensione. I compiti più semplici, fare compere, cucinare, fare un bagno, non possono più essere considerati di routine. È impossibile dedicarvi in parte ad attività che nutrano e rivitalizzino il vostro spirito. Tali piaceri diventeranno lussi rari, piuttosto che attività regolari, perché le richieste e i problemi cui sarete sottoposti vi faranno sembrare troppo costosa, in termini di tempo, energie e denaro qualsiasi attività piacevole. Se è stato difficile compilare la lista delle 10 attività, probabilmente non vuol dire che non vi piace fare tante cose, ma piuttosto che non avete prestato attenzione a ciò che vi rivitalizza. Cercate di programmare regolarmente almeno alcune di queste attività. Evitate di spendere tutte le vostre energie solo per l’adempimento dell’assistenza, a spese delle attività piacevoli che vi vorreste concedere. Ciò migliorerà la vostra capacità di affrontare i problemi del malato. Se non lo fate rischiate depressione e scoraggiamento.

La cura di sè

Esercizi, corretta alimentazione e relax, sono le basi per il benessere e una buona salute. È necessario bilanciare questi fattori per ricaricare il corpo e la mente e tenervi in forma anche per svolgere bene il vostro lavoro.

Esercizi

Le scuse per non farli sono molte: “sono troppo vecchio”, “faccio già abbastanza esercizio occupandomi del mio caro”, “non ho tempo o energia per questo”. I benefici derivanti dall’esercizio fisico sono moltissimi eppure inserirli nella vostra agenda non è mai facile. La ricerca ha dimostrato che non si è mai troppo vecchi, che offrire cure ad altri non è il genere di esercizio fisico che serve; inoltre può darsi che stiate sperimentando stress, stanchezza e depressione anche perché non fate attività fisica. Perciò continuate a leggere qui sotto.

Scegliete gli esercizi giusti

Non deve necessariamente trattarsi di qualcosa che fanno gli altri. Deve essere qualcosa che vi piace, dal quale trarre beneficio e dovrebbe essere fatto con costanza. Queste attività potrebbero essere: camminare, andare in bicicletta, nuotare. Se non lo facevate prima, chiedete prima consiglio al vostro medico.

Cercate di divertirvi

Scegliete un’attività che vi piaccia, aumenterà la probabilità che vi coinvolga.

Non aspettatevi troppo e troppo in fretta

 I risultati saranno migliori se vi porrete obiettivi intermedi e aumentate gradualmente il vostro impegno nell’attività prescelta almeno fino a 3 volte la settimana.

Datevi delle ricompense

Per ogni gradino superato. Sia che raggiungete o no gli obiettivi fissati, concedetevi un premio per ciò che siete riusciti a fare (un massaggio, un mazzo di fiori, un film).

Siate convinti dell’importanza della vostra cura personale

Trovare il tempo per aiutare il malato è facile, trovarlo per prendervi cura di voi stessi è difficile. Ma ricordate che ciò può ridurre e persino eliminare la sensazione continua di essere troppo stanchi e sovraccaricati.

Abitudini alimentari

Questo paragrafo non tratta propriamente degli aspetti nutrizionali, ma piuttosto di certe abitudini alimentari autodistruttive comuni a chi si prende cura dei malati. La nostra società è invasa da informazioni su colesterolo, sodio e vitamine. Per restare efficienti non dovete solo conoscere queste cose, ma anche sapere seguire abitudini alimentari sane. Ecco qui di seguito qualche alternativa che consigliamo di seguire...
- Organizzatevi in modo da pranzare qualche volta durante la settimana con qualcuno “speciale”, vostra nipote, un vicino o un caro amico. Accettate con gioia la loro offerta di portare il cibo o di invitarvi fuori. Mangiare in compagnia dà più gusto.
- Portatevi il pranzo in camera da letto se la persona che curate mangia a letto.
- Alzate il telefono quando vi sentite soli, invece di mangiare dolci. Cercate amicizie altrove, piuttosto che nel sacchetto delle caramelle.

fasi e sintomi dell' Alzheimer

fasi e sintomi dell' Alzheimer

http://www.alz.org/it/stadi-del-morbo-di-alzheimer.asp

Le sette fasi del morbo di Alzheimer

Il morbo di Alzheimer peggiora nel tempo. Gli esperti hanno sviluppato delle “tappe” per descrivere come le abilità di una persona cambino, rispetto alla loro normale funzionalità, a causa del morbo di Alzheimer in fase avanzata.


Le fasi descritte di seguito forniscono un’idea generale di come le abilità cambino durante il corso della malattia. I sintomi del morbo di Alzheimer possono variare notevolmente, e non tutti potranno riscontrare gli stessi sintomi o un decorso alla stessa velocità.
Questo quadro, caratterizzato da sette fasi, si fonda su un sistema sviluppato da Barry Reisberg, M.D., direttore clinico del Dementia Research Center (Centro di Ricerca sull’Invecchiamento e la Demenza) della New York University School of Medicine.

Fase 1: Nessuna disabilità (funzionalità normale)
La persona non soffre di problemi di memoria. La visita effettuata presso un medico non mostra alcuna prova di sintomi di demenza.

Fase 2: Declino cognitivo molto lieve (è possibile che si tratti di normali cambiamenti legati all'età o dei primi segnali del morbo di Alzheimer)
La persona potrebbe segnalare la sensazione di avere vuoti di memoria - dimenticando parole famigliari o la posizione di oggetti di uso quotidiano. Tuttavia, nessun sintomo di demenza può essere rilevato nel corso di una visita medica oppure da amici, familiari o colleghi di lavoro.

Fase 3: Declino cognitivo lieve Un lieve declino cognitivo (il morbo di Alzheimer in fase precoce può essere diagnosticato con questi sintomi in alcune, ma non in tutte le persone)
Amici, familiari o colleghi di lavoro iniziano a notare delle difficoltà. Nel corso di una visita medica accurata, i medici possono essere in grado di rilevare problemi di memoria o di concentrazione. Le difficoltà più comuni di cui alla fase 3 includono:
  • Evidenti difficoltà a trovare la parola o il nome giusto
  • Problemi a ricordare i nomi quando vengono presentate nuove persone
  • Difficoltà notevolmente maggiori nello svolgere dei compiti in contesti sociali o di lavoro
  • Dimenticare cose appena lette
  • Perdere o non trovare un oggetto di valore
  • Aumento dei problemi di programmazione o organizzazione
Per saperne di più: Conoscere i 10 segnali.

Fase 4: Declino cognitivo moderato (morbo di Alzheimer lieve o in fase precoce) 
A questo punto, una visita medica accurata dovrebbe poter rilevare chiari sintomi in diversi ambiti:
  • Dimenticanza di recenti eventi
  • Compromissione della capacità di eseguire calcoli aritmetici mentali impegnativi - ad esempio, il contare a ritroso da 100 a sette a sette
  • Maggiore difficoltà a svolgere compiti complessi, quali, ad esempio, la pianificazione della cena per gli ospiti, il pagamento delle bollette o la gestione delle finanze
  • Dimenticanza della propria storia personale
  • Carattere sempre più lunatico o riservato, soprattutto in occasione di situazioni socialmente o mentalmente impegnative

Fase 5 : Declino cognitivo moderatamente grave (morbo di Alzheimer moderato o in stadio intermedio) 
Le lacune nella memoria e nel pensare diventano evidenti, e le persone cominciano ad avere bisogno di aiuto per svolgere le attività quotidiane. In questa fase, chi è affetto dal morbo di Alzheimer potrebbe:
  • Non essere in grado di ricordare il proprio indirizzo o numero di telefono oppure la scuola superiore o l'università presso la quale si è laureato
  • Confondersi sul luogo in cui si trova o sul giorno attuale
  • Avere problemi con l’esecuzione di calcoli aritmetici mentali meno impegnativi - ad esempio, il contare a ritroso da 40 a quattro a quattro, oppure da 20 a due a due
  • Avere bisogno di aiuto per scegliere un abbigliamento adeguato per la stagione o per l'occasione
  • Ricordare ancora particolari significativi su se stessi e la loro famiglia
  • Non necessitare ancora di assistenza per mangiare o andare in bagno

Fase 6 : Declino cognitivo grave (morbo di Alzheimer moderatamente grave o in fase media)
La memoria continua a peggiorare, possono aver luogo cambiamenti di personalità; le persone hanno bisogno di notevole aiuto per svolgere le attività quotidiane. In questa fase, tali individui potrebbero:
  • Perdere la consapevolezza delle esperienze più recenti e di ciò che li circonda
  • Ricordare il proprio nome, ma avere difficoltà a ricordare la propria storia personale
  • Distinguere i volti noti e non noti, ma avere difficoltà a ricordare il nome di un coniuge o di una persona che l’assiste
  • Avere bisogno di aiuto per vestirsi correttamente e, in caso di mancato controllo, compiere errori quali indossare il pigiama sopra i vestiti da giorno o indossare scarpe sul piede sbagliato
  • Vivere l’esperienza di grandi cambiamenti nei modelli di sonno - dormire durante il giorno e diventare irrequieto di notte
  • Avere bisogno di aiuto nel gestire certi dettagli dell’igiene personale (ad esempio, tirare lo sciacquone, pulirsi con la carta igienica o smaltirla correttamente)
  • Avere problemi sempre più frequenti nel controllare la vescica o l’intestino
  • Vivere l’esperienza di notevoli cambiamenti di personalità e di comportamento, tra cui la sospettosità e le fissazioni (come credere che la persona che l’assiste sia un’imbrogliona) oppure comportamenti incontrollabili o ripetitivi, come torcersi le mani o fare a pezzetti i fazzoletti di carta
  • Tendere a vagare o perdersi

«Nella terapia del Parkinson non si possono avere i minuti contati!»

Alzheimer, può essere causato dalla carenza di una sostanza

ROMAL'Alzheimer potrebbe dipendere anche dalla carenza di una sostanza importante per il cervello, l'amminoacido arginina, che viene 'divorato' dalle cellule di difesa (sistema immunitario) del paziente. Lo rivela uno studio su animali pubblicato sul Journal of Neuroscience, che potrebbe portare a nuove strategie di cura contro il morbo di Alzheimer.
Il consumo esagerato di arginina da parte delle cellule immunitarie è risultato importantissimo nei processi patologici della malattia, quindi impedendolo si potrebbe curarla, spiega l'autrice del lavoro Carol Colton della Duke University School of Medicine presso Duhram.
Gli esperti hanno studiato la malattia di Alzheimer su topi e visto che, in concomitanza con l'insorgere della perdita di memoria e con l'accumularsi di placche tossiche nel cervello, si osserva anche una carenza crescente dell'amminoacido arginina che viene eliminato via via ad opera dell'azione anomala di
cellule immunitarie (microglia) presenti in sede.
Sempre sugli animali gli esperti hanno dimostrato che bloccando questo processo anomalo di «digestione» dell'arginina attraverso l'uso di un farmaco sperimentale (DFMO, una molecola oggi in fase di sperimentazione clinica per alcuni tumori), l'accumulo di placche si riduce e anche i sintomi di
perdita di memoria. Si tratta di uno studio preliminare che lascia però intravedere nuovi possibili bersagli d'azione per rallentare la malattia.


lunedì 26 gennaio 2015



parkinson : la riabilitazione


http://www.parkinson.ch/index.php?id=313&L=2


«Nella terapia del Parkinson non si possono avere i minuti contati!»

La terapia del Parkinson avanzato è complessa. Il Dr. Matthias Oechsner, Caposervizio del Centro Parkinson presso la Clinica Helios di Zihlschlacht, spiega perché essa richiede soprattutto tempo e capacità d‘immedesimazione.

Buongiorno, dottor Oechsner. Lei lavora da più di dieci anni nella riabilitazione del Parkinson. Quali cambiamenti ha osservato in questo periodo, e quali effetti hanno?

La riabilitazione del Parkinson ha registrato un forte sviluppo, evolvendo parallelamente alle nostre conoscenze e alla nostra esperienza. Molti concetti originariamente tratti dalla riabilitazione post-ictus sono stati gradualmente adeguati alle esigenze dei pazienti con altre patologie neurologiche come il Parkinson. Di conseguenza, per parecchio tempo i pazienti parkinsoniani sono stati trattati con una sorta di «terapia standard» composta di fisioterapia, ergoterapia e logopedia. Col passare degli anni la nostra esperienza è cresciuta e abbiamo imparato dalla ricerca e dagli studi sulla casistica. Così oggi nel Parkinson trovano sovente applicazione concetti specifici, che però danno buoni frutti solo se il personale sanitario è ben istruito e li sa attuare correttamente. Tutto questo ha richiesto tempo, ma ne è valsa la pena. Oggi abbiamo molto più da offrire che dieci anni fa.

Quali sono gli obiettivi della riabilitazione nel Parkinson?

Cerchiamo di preservare il più possibile le riserve funzionali dei pazienti. A differenza di quanto accade ad esempio nel caso dell’ictus – dove solitamente si può soltanto reagire a un evento improvviso – nel Parkinson la riabilitazione moderna adotta un’impostazione proattiva ed è intesa come investimento nel futuro. Noi auspichiamo che i malati beneficino al più presto possibile di provvedimenti riabilitativi, al fine di migliorare le risorse a cui dovranno attingere in seguito. Un buon esempio è quello del mal di schiena cronico che affligge numerosi parkinsoniani. Il dolore può essere soppresso con dei farmaci, certo, però la causa non viene rimossa. I malati di Parkinson sono poco mobili, spesso restano seduti rigidamente e tendono a mantenere a lungo posizioni scorrette. La sollecitazione sempre uguale e le posture sbagliate causano modificazioni dello scheletro che si aggravano ulteriormente con la progressiva atrofia dei muscoli. La conseguenza risiede in dolori cronici e in un’elevata sollecitazione psichica. A lungo termine, stanno molto meglio i pazienti che iniziano presto a darsi da fare, che si muovono, si allenano, allungano i muscoli e imparano a stare diritti.

Quali metodi caratterizzano la terapia?

Vista l’individualità dei sintomi originati dal Parkinson, non esistono ricette brevettate. Bisogna concentrarsi in maniera mirata sui sintomi che infastidiscono maggiormente il singolo paziente. A tal fine, noi facciamo ricorso a svariate terapie tenendo conto dei sintomi, ma anche delle preferenze dei pazienti. Costringere qualcuno che non ama l’acqua a muoversi tutti i giorni in piscina non serve a niente.
Fra le diverse terapie spiccano alcuni metodi – come ad esempio il Lee-Silverman-Voice-Treatment (LSVT) nel caso della logopedia – che si sono affermati in virtù dei successi conseguiti. Tra l’altro, dal LSVT è stato derivato il nuovo concetto di fisioterapia LSVT-Big, che si basa su grandi movimenti, passi di affondo e forme analoghe di mobilizzazione. Noi siamo dei pionieri in questo campo, e con Susanne Brühlmann disponiamo dell’unica fisioterapista in Svizzera che ha appreso questo metodo negli USA. Personalmente trovo che le prime esperienze fatte con LSVT-Big sono promettenti.

Oggigiorno riabilitazione nel Parkinson è quindi sinonimo di allenamento fisico?

No no, è molto più di questo! Proprio come il lavoro della vostra Associazione, la riabilitazione nel Parkinson poggia su diversi pilastri. Anzitutto su una terapia farmacologica ben calibrata, basilare ai fini del controllo del tremore, della rigidità e della mobilità generale. Il secondo pilastro è costituito dalla padronanza dei sintomi assiali, della postura e dell’equilibrio, che si ottiene solo con l’allenamento. In terzo luogo dobbiamo tenere in considerazione eventuali disturbi cognitivi, vegetativi e psichiatrici. Sovente questi problemi non motori pesano molto sui malati: purtroppo per molto tempo sono stati ignorati, e quindi anche trascurati nella riabilitazione.
Il quarto aspetto risiede nella consegna di mezzi ausiliari: un tema importante, ma anche molto delicato. Non di rado, per convincere i pazienti della reale utilità di mezzi ausiliari quali il bastone o il deambulatore occorrono tempo, empatia e capacità di persuasione, oltre a un certo impegno per insegnare l’uso corretto di questi ausili. Ma il successo ricompensa degli sforzi fatti: nella maggior parte dei casi, una volta che i pazienti si abituano a un mezzo ausiliario non ne vogliono più fare a meno! Chi vorrebbe rinunciare alla sicurezza e alla libertà di movimento?
In quinto luogo ci occupiamo dei pazienti con pompe di apomorfina o Duodopa, come pure dei malati che intendono sottoporsi alla stimolazione cerebrale profonda o l’hanno già fatto. Sosteniamo gli ospedali che effettuano questo intervento eseguendo esami preliminari, e provvedendo alla regolazione precisa degli stimolatori dopo l’operazione.
Il sesto pilastro è forse anche il più importante: presso il Centro Parkinson ci prendiamo il tempo necessario! Ci prendiamo cura dei pazienti, cerchiamo di capire come «funziona» il Parkinson di ognuno, quali sintomi risentono maggiormente, cosa gli piace, cosa invece non gradiscono, cosa fare per motivarli. Solo così possiamo definire una terapia personalizzata e ricavarne il massimo beneficio. Questa dedizione nei confronti dei pazienti implica anche che con loro alleniamo cose semplicissime, come ad esempio l’assunzione puntuale dei farmaci! Oppure diamo loro consigli per la vita quotidiana: scarpe con tacchi bassi, abiti con grandi bottoni, posate con impugnature spesse. Grazie all’assistenza intensa richiesta da questo approccio, tante volte ci accorgiamo di problemi che prima erano passati inosservati: disturbi visivi latenti, assunzione insufficiente di liquidi, apnee notturne, disturbi psichici – come ad esempio le turbe del controllo degli impulsi – o magari anche problemi famigliari. Cose di cui durante le visite ambulatoriali – vuoi per mancanza di tempo, vuoi per un comprensibile sentimento di vergogna dei pazienti e dei loro cari – non si parla mai, ma che costituiscono la base di qualsiasi successo terapeutico. Perciò noi ci prendiamo anche il tempo di spiegare certe cose ai pazienti, di incoraggiarli ad agire nel modo più opportuno e di motivarli. Fiducia e schiettezza aiutano a riconoscere i propri errori, e quindi anche a migliorarsi.

Quando arriva il momento indicato per un soggiorno stazionario?

Arriva quando per talune funzioni si rende necessaria una vigilanza più continua che non può essere garantita dal neurologo e dal medico di famiglia nel quadro delle visite ambulatoriali. Capita ad esempio quando le fluttuazioni motorie richiedono una ricalibratura dello schema terapeutico che non può essere eseguita in sede ambulatoriale. Oppure quando compaiono sintomi che non rispondono ai farmaci o che sono provocati da questi ultimi, quali ad esempio allucinazioni, disturbi dell’equilibrio, un accresciuto rischio di cadute, oscillazioni della pressione sanguigna o disturbi della deglutizione. Sovente il ricovero presso il nostro Centro è motivato da problemi notturni come dolori o altri disturbi del sonno. Insomma: tutto ciò che non può essere risolto nel quadro di una visita ambulatoriale mensile dovrebbe portare al soggiorno stazionario. Soprattutto i disturbi notturni e le fluttuazioni hanno spesso conseguenze drammatiche, anche per la vita dei congiunti. Oltre a questo ci capita sovente di trattare anche pazienti il cui Parkinson ha subito un peggioramento acuto, magari in seguito a un intervento chirurgico o a causa di un’altra malattia.

Prima lei ha detto che uno dei grandi vantaggi della riabilitazione stazionaria risiede nel tempo che potete dedicare ai pazienti. Cosa succederà dopo il 1° gennaio, con l’arrivo dei forfait per caso?

Per il momento questa novità non toccherà la riabilitazione, poiché per noi i forfait per caso entreranno in vigore al più presto nel 2015. Tuttavia è importante che il sistema SwissDRG non abbia ripercussioni negative per i malati di Parkinson. Abbiamo ancora l’opportunità di evitare gli errori fatti in altri Paesi e di preservare la qualità della sanità elvetica, qualità che rispetto alla media europea è davvero molto elevata. Per fortuna ci sono ancora tante casse malati che riconoscono l’importanza della riabilitazione stazionaria. Noi siamo sempre contenti quando rappresentanti delle casse malati o medici fiduciari partecipano alle nostre giornate informative e ai nostri simposi: queste persone sanno che in fin dei conti, oltre a incrementare la qualità di vita dei pazienti, la salvaguardia delle risorse funzionali apporta anche vantaggi a livello di costi, e che una decisione giusta presa tempestivamente ha effetti positivi per tutti. A titolo d’esempio, basti dire che anche in caso di problemi non neurologici – magari dopo una frattura o dopo un’operazione – la riabilitazione neurologica può contribuire a evitare altre complicazioni ai pazienti parkinsoniani.

Cosa dovrebbe succedere affinché le cose migliorino?

Come detto, rispetto ad altri Paesi europei la qualità dell’approvvigionamento sanitario in Svizzera è già molto buona. Probabilmente dovremmo garantire una trasparenza ancora maggiore nei confronti degli enti che finanziano le prestazioni, spiegando quale terapia consente di ottenere veramente quali risultati, quanto costa e quali effetti ha a lungo termine. Molte terapie che in un primo tempo appaiono costose si rivelano poi vantaggiose. Inoltre, vista la complessità dei metodi e delle patologie, nell’ambito della neurologia abbiamo bisogno di più personale altamente specializzato: medici, infermieri e terapisti.

A proposito di specializzazione: alla luce dell’evoluzione demografica ritiene che presto in Svizzera ci vorranno altri Centri Parkinson oltre ai due di Zihlschlacht e Tschugg?

No, non credo. A medio termine, la capacità di questi due Centri è sufficiente. Ciò di cui invece abbiamo bisogno sono centri di neuroriabilitazione specializzati che si concentrano su un campo stabilito, come il Parkinson, la SM o l’ictus. Ciò comprime i costi e incrementa tanto l’efficienza dell’ospedale, quanto la qualità dei trattamenti. Se in più i centri specializzati collaborassero maggiormente nell’ambito della ricerca e della casistica, si potrebbe ottenere una migliore sensibilizzazione dei dirigenti delle casse.
Sempre a proposito di trattamento differenziato, reputo che sarebbe altresì importante promuovere la sensibilità e la conoscenza in relazione alle sindromi parkinsoniane atipiche, quali ad esempio l’atrofia multisistemica (MSA) o la paralisi sopranucleare progressiva (PSP). Queste patologie rappresentano fino al 25% di tutti i casi di Parkinson, eppure sono ancora poco studiate e spesso presentano un decorso completamente diverso da quello della sindrome di Parkinson idiopatico. Sovente in ambito ambulatoriale non viene posta una diagnosi corretta, poiché soprattutto a uno stadio precoce può essere molto difficile operare una distinzione. Spesso il trattamento stazionario rappresenta l’unica possibilità di giungere a una diagnosi definitiva. Dato che nel caso delle sindromi atipiche i normali farmaci antiparkinsoniani sono poco efficaci, assumono un’importanza ancora maggiore le terapie accompagnatorie, l’istruzione sull’uso dei mezzi ausiliari e l’assistenza infermieristica.

E come vede lei il futuro della normale riabilitazione del Parkinson? Ci sono novità che promettono maggiori successi terapeutici?

I progressi sono costanti. Oltre a compiere esperimenti con le terapie computerizzate, ad esempio con l’ausilio della console di gioco Wii, si sta pensando di utilizzare anche nel Parkinson i dispositivi robotici concepiti per la riabilitazione post-ictus. Inoltre, in collaborazione con l’ETH stiamo sviluppando uno stimolatore che i pazienti parkinsoniani potranno utilizzare nel caso di blocchi improvvisi, ovvero del cosiddetto freezing.
Parallelamente è in corso anche un progetto pilota del nostro ergoterapista Roger Stadelmann, che ha avuto l’idea di introdurre nella terapia la «Slackline», ovvero una fettuccia elastica solitamente usata nel tempo libero che viene tesa fra due alberi per divertirsi a camminare in equilibrio. Per il suo lavoro di diploma, Stadelmann ha effettuato delle prove con pazienti malati di sclerosi multipla o reduci da un ictus, constatando che l’uso della Slackline aiuta a migliorare l’equilibrio, la coordinazione, l’ampiezza dei movimenti e anche la concentrazione. Ora verificheremo se anche nel Parkinson si possono ottenere effetti positivi.

La stipsi nella malattia di Parkinson: aggiornamenti su nuovi trattamenti

La stipsi nella malattia di Parkinson

La stipsi nella malattia di Parkinson: aggiornamenti su nuovi trattamenti



Dr.ssa BarichellaAtti del 37° Convegno AIP - Milano, 6 giugno 2015

Il Prof. Pezzoli ricorda che la malattia di Parkinson coinvolge non solo la funzione motoria, ma anche il sistema nervoso autonomo, in particolare la parte del sistema nervoso che regola il funzionamento dell’intestino, tanto che la stipsi è un sintomo molto comune della malattia (60% dei pazienti) che può addirittura comparire prima dei sintomi motori
La Dott.ssa Cecilia Marzona, infermiere professionale e dipendente della ditta Coloplast, dove è responsabile per la formazione, ha presentato un dispositivo medico, un sistema di irrigazione intestinale costituito da una unità di controllo con pompa, una sacca d'acqua ed un catetere rettale.  Funziona ad acqua, l’acqua va a stimolare l’intestino, una metodica che non influenza la flora batterica intestinale né l’assorbimento dei farmaci.  L’obiettivo è di svuotare tutto il colon discendente, in questo modo il paziente risolve sia il problema della stipsi, con evacuazioni estremamente difficoltose e malessere,  sia l’eventuale problema di perdite fecali, perché rimane un grosso tratto libero che assicura che non avverrà un’altra evacuazione fino alla irrigazione programmata successiva.  La intera procedura, che dura 30 minuti circa, è facile, si può fare sia seduti sul WC che a letto in posizione distesa, ci si può fare aiutare da qualcun altro oppure si può usarlo in autonomia. 
La Dott.ssa Michela Barichella, responsabile della UO di Dietologia del Centro Parkinson, sottolinea che questo intervento non deve essere il primo approccio al problema stipsi. La stipsi, sintomo secondario della malattia di Parkinson, necessita di un trattamento dietetico con dieta ricca di fibre e acqua. Quando questo non è sufficiente, è possibile ricorrere a integratori a base di fibre o eventuali lassativi, sempre sotto controllo medico.  Se il paziente continua a non avere beneficio si può ricorrere a trattamenti come l’irrigazione o addirittura più complessi come la stimolazione pelvica. 
A riprova di questo un paziente dal pubblico riferisce di avere risolto il problema della stitichezza con una lunga camminata al mattina ed il consumo quotidiano di una terrina di verdura cotta e cicoria e tanta acqua.

Domande dal pubblico
Come si può accedere a questo dispositivo?  Si può comprare in farmacia?
Dott.ssa Marzona: Il dispositivo non è disponibile per la vendita diretta al pubblico.  La politica aziendale è di renderlo disponibile tramite un centro di riferimento specializzato. Questo perché riteniamo che ci debba essere un'indicazione specialistica per il suo uso e che il paziente debba ricevere un training adeguato prima di usarlo a casa.

A quale tipo di specialista si deve rivolgere il paziente?
Dott.ssa Marzona: effettivamente ci può essere il problema di trovare la figura specialistica adeguata.  L'azienda sta costruendo una rete di supporto che prevede il coinvolgimento di più centri, l'identificazione di una figura di riferimento e l’organizzazione di training sempre nelle strutture di Neurologia. Attualmente le Unità Spinali sono le strutture più coinvolte.

Lo sforzo che si fa per evacuare ha delle controindicazioni?
In termini medici quello sforzo si chiama torchio addominale.  Fa aumentare in maniera considerevole la pressione all'interno dell'addome, rendendo difficile il ritorno venoso.  Questo a sua volta, può danneggiare le vene nei pressi del retto determinando la formazione di emorroidi.  Inoltre, la compromissione della circolazione locale può favorire la formazione di ragadi.

Conviene fare una colonscopia di controllo?
In linea di massima dopo i 50 anni di età è consigliato fare una colonscopia di controllo ogni 5 anni.  Questo per escludere lo sviluppo di un tumore del colon.  Quest'ultimo si è ridotto molto perché adesso vi è lo screening basato sulla ricerca di sangue nelle feci e, in caso positivo, sulla esecuzione di una colonscopia. 

E se il paziente ha i diverticoli?
Dott.ssa Marzona: la diverticolite è una controindicazione all'uso del dispositivo.