sabato 14 gennaio 2017

«Nella terapia del Parkinson non si possono avere i minuti contati!»

Alzheimer, può essere causato dalla carenza di una sostanza

ROMAL'Alzheimer potrebbe dipendere anche dalla carenza di una sostanza importante per il cervello, l'amminoacido arginina, che viene 'divorato' dalle cellule di difesa (sistema immunitario) del paziente. Lo rivela uno studio su animali pubblicato sul Journal of Neuroscience, che potrebbe portare a nuove strategie di cura contro il morbo di Alzheimer.
Il consumo esagerato di arginina da parte delle cellule immunitarie è risultato importantissimo nei processi patologici della malattia, quindi impedendolo si potrebbe curarla, spiega l'autrice del lavoro Carol Colton della Duke University School of Medicine presso Duhram.
Gli esperti hanno studiato la malattia di Alzheimer su topi e visto che, in concomitanza con l'insorgere della perdita di memoria e con l'accumularsi di placche tossiche nel cervello, si osserva anche una carenza crescente dell'amminoacido arginina che viene eliminato via via ad opera dell'azione anomala di
cellule immunitarie (microglia) presenti in sede.
Sempre sugli animali gli esperti hanno dimostrato che bloccando questo processo anomalo di «digestione» dell'arginina attraverso l'uso di un farmaco sperimentale (DFMO, una molecola oggi in fase di sperimentazione clinica per alcuni tumori), l'accumulo di placche si riduce e anche i sintomi di
perdita di memoria. Si tratta di uno studio preliminare che lascia però intravedere nuovi possibili bersagli d'azione per rallentare la malattia.


lunedì 26 gennaio 2015



parkinson : la riabilitazione


http://www.parkinson.ch/index.php?id=313&L=2


«Nella terapia del Parkinson non si possono avere i minuti contati!»

La terapia del Parkinson avanzato è complessa. Il Dr. Matthias Oechsner, Caposervizio del Centro Parkinson presso la Clinica Helios di Zihlschlacht, spiega perché essa richiede soprattutto tempo e capacità d‘immedesimazione.

Buongiorno, dottor Oechsner. Lei lavora da più di dieci anni nella riabilitazione del Parkinson. Quali cambiamenti ha osservato in questo periodo, e quali effetti hanno?

La riabilitazione del Parkinson ha registrato un forte sviluppo, evolvendo parallelamente alle nostre conoscenze e alla nostra esperienza. Molti concetti originariamente tratti dalla riabilitazione post-ictus sono stati gradualmente adeguati alle esigenze dei pazienti con altre patologie neurologiche come il Parkinson. Di conseguenza, per parecchio tempo i pazienti parkinsoniani sono stati trattati con una sorta di «terapia standard» composta di fisioterapia, ergoterapia e logopedia. Col passare degli anni la nostra esperienza è cresciuta e abbiamo imparato dalla ricerca e dagli studi sulla casistica. Così oggi nel Parkinson trovano sovente applicazione concetti specifici, che però danno buoni frutti solo se il personale sanitario è ben istruito e li sa attuare correttamente. Tutto questo ha richiesto tempo, ma ne è valsa la pena. Oggi abbiamo molto più da offrire che dieci anni fa.

Quali sono gli obiettivi della riabilitazione nel Parkinson?

Cerchiamo di preservare il più possibile le riserve funzionali dei pazienti. A differenza di quanto accade ad esempio nel caso dell’ictus – dove solitamente si può soltanto reagire a un evento improvviso – nel Parkinson la riabilitazione moderna adotta un’impostazione proattiva ed è intesa come investimento nel futuro. Noi auspichiamo che i malati beneficino al più presto possibile di provvedimenti riabilitativi, al fine di migliorare le risorse a cui dovranno attingere in seguito. Un buon esempio è quello del mal di schiena cronico che affligge numerosi parkinsoniani. Il dolore può essere soppresso con dei farmaci, certo, però la causa non viene rimossa. I malati di Parkinson sono poco mobili, spesso restano seduti rigidamente e tendono a mantenere a lungo posizioni scorrette. La sollecitazione sempre uguale e le posture sbagliate causano modificazioni dello scheletro che si aggravano ulteriormente con la progressiva atrofia dei muscoli. La conseguenza risiede in dolori cronici e in un’elevata sollecitazione psichica. A lungo termine, stanno molto meglio i pazienti che iniziano presto a darsi da fare, che si muovono, si allenano, allungano i muscoli e imparano a stare diritti.

Quali metodi caratterizzano la terapia?

Vista l’individualità dei sintomi originati dal Parkinson, non esistono ricette brevettate. Bisogna concentrarsi in maniera mirata sui sintomi che infastidiscono maggiormente il singolo paziente. A tal fine, noi facciamo ricorso a svariate terapie tenendo conto dei sintomi, ma anche delle preferenze dei pazienti. Costringere qualcuno che non ama l’acqua a muoversi tutti i giorni in piscina non serve a niente.
Fra le diverse terapie spiccano alcuni metodi – come ad esempio il Lee-Silverman-Voice-Treatment (LSVT) nel caso della logopedia – che si sono affermati in virtù dei successi conseguiti. Tra l’altro, dal LSVT è stato derivato il nuovo concetto di fisioterapia LSVT-Big, che si basa su grandi movimenti, passi di affondo e forme analoghe di mobilizzazione. Noi siamo dei pionieri in questo campo, e con Susanne Brühlmann disponiamo dell’unica fisioterapista in Svizzera che ha appreso questo metodo negli USA. Personalmente trovo che le prime esperienze fatte con LSVT-Big sono promettenti.

Oggigiorno riabilitazione nel Parkinson è quindi sinonimo di allenamento fisico?

No no, è molto più di questo! Proprio come il lavoro della vostra Associazione, la riabilitazione nel Parkinson poggia su diversi pilastri. Anzitutto su una terapia farmacologica ben calibrata, basilare ai fini del controllo del tremore, della rigidità e della mobilità generale. Il secondo pilastro è costituito dalla padronanza dei sintomi assiali, della postura e dell’equilibrio, che si ottiene solo con l’allenamento. In terzo luogo dobbiamo tenere in considerazione eventuali disturbi cognitivi, vegetativi e psichiatrici. Sovente questi problemi non motori pesano molto sui malati: purtroppo per molto tempo sono stati ignorati, e quindi anche trascurati nella riabilitazione.
Il quarto aspetto risiede nella consegna di mezzi ausiliari: un tema importante, ma anche molto delicato. Non di rado, per convincere i pazienti della reale utilità di mezzi ausiliari quali il bastone o il deambulatore occorrono tempo, empatia e capacità di persuasione, oltre a un certo impegno per insegnare l’uso corretto di questi ausili. Ma il successo ricompensa degli sforzi fatti: nella maggior parte dei casi, una volta che i pazienti si abituano a un mezzo ausiliario non ne vogliono più fare a meno! Chi vorrebbe rinunciare alla sicurezza e alla libertà di movimento?
In quinto luogo ci occupiamo dei pazienti con pompe di apomorfina o Duodopa, come pure dei malati che intendono sottoporsi alla stimolazione cerebrale profonda o l’hanno già fatto. Sosteniamo gli ospedali che effettuano questo intervento eseguendo esami preliminari, e provvedendo alla regolazione precisa degli stimolatori dopo l’operazione.
Il sesto pilastro è forse anche il più importante: presso il Centro Parkinson ci prendiamo il tempo necessario! Ci prendiamo cura dei pazienti, cerchiamo di capire come «funziona» il Parkinson di ognuno, quali sintomi risentono maggiormente, cosa gli piace, cosa invece non gradiscono, cosa fare per motivarli. Solo così possiamo definire una terapia personalizzata e ricavarne il massimo beneficio. Questa dedizione nei confronti dei pazienti implica anche che con loro alleniamo cose semplicissime, come ad esempio l’assunzione puntuale dei farmaci! Oppure diamo loro consigli per la vita quotidiana: scarpe con tacchi bassi, abiti con grandi bottoni, posate con impugnature spesse. Grazie all’assistenza intensa richiesta da questo approccio, tante volte ci accorgiamo di problemi che prima erano passati inosservati: disturbi visivi latenti, assunzione insufficiente di liquidi, apnee notturne, disturbi psichici – come ad esempio le turbe del controllo degli impulsi – o magari anche problemi famigliari. Cose di cui durante le visite ambulatoriali – vuoi per mancanza di tempo, vuoi per un comprensibile sentimento di vergogna dei pazienti e dei loro cari – non si parla mai, ma che costituiscono la base di qualsiasi successo terapeutico. Perciò noi ci prendiamo anche il tempo di spiegare certe cose ai pazienti, di incoraggiarli ad agire nel modo più opportuno e di motivarli. Fiducia e schiettezza aiutano a riconoscere i propri errori, e quindi anche a migliorarsi.

Quando arriva il momento indicato per un soggiorno stazionario?

Arriva quando per talune funzioni si rende necessaria una vigilanza più continua che non può essere garantita dal neurologo e dal medico di famiglia nel quadro delle visite ambulatoriali. Capita ad esempio quando le fluttuazioni motorie richiedono una ricalibratura dello schema terapeutico che non può essere eseguita in sede ambulatoriale. Oppure quando compaiono sintomi che non rispondono ai farmaci o che sono provocati da questi ultimi, quali ad esempio allucinazioni, disturbi dell’equilibrio, un accresciuto rischio di cadute, oscillazioni della pressione sanguigna o disturbi della deglutizione. Sovente il ricovero presso il nostro Centro è motivato da problemi notturni come dolori o altri disturbi del sonno. Insomma: tutto ciò che non può essere risolto nel quadro di una visita ambulatoriale mensile dovrebbe portare al soggiorno stazionario. Soprattutto i disturbi notturni e le fluttuazioni hanno spesso conseguenze drammatiche, anche per la vita dei congiunti. Oltre a questo ci capita sovente di trattare anche pazienti il cui Parkinson ha subito un peggioramento acuto, magari in seguito a un intervento chirurgico o a causa di un’altra malattia.

Prima lei ha detto che uno dei grandi vantaggi della riabilitazione stazionaria risiede nel tempo che potete dedicare ai pazienti. Cosa succederà dopo il 1° gennaio, con l’arrivo dei forfait per caso?

Per il momento questa novità non toccherà la riabilitazione, poiché per noi i forfait per caso entreranno in vigore al più presto nel 2015. Tuttavia è importante che il sistema SwissDRG non abbia ripercussioni negative per i malati di Parkinson. Abbiamo ancora l’opportunità di evitare gli errori fatti in altri Paesi e di preservare la qualità della sanità elvetica, qualità che rispetto alla media europea è davvero molto elevata. Per fortuna ci sono ancora tante casse malati che riconoscono l’importanza della riabilitazione stazionaria. Noi siamo sempre contenti quando rappresentanti delle casse malati o medici fiduciari partecipano alle nostre giornate informative e ai nostri simposi: queste persone sanno che in fin dei conti, oltre a incrementare la qualità di vita dei pazienti, la salvaguardia delle risorse funzionali apporta anche vantaggi a livello di costi, e che una decisione giusta presa tempestivamente ha effetti positivi per tutti. A titolo d’esempio, basti dire che anche in caso di problemi non neurologici – magari dopo una frattura o dopo un’operazione – la riabilitazione neurologica può contribuire a evitare altre complicazioni ai pazienti parkinsoniani.

Cosa dovrebbe succedere affinché le cose migliorino?

Come detto, rispetto ad altri Paesi europei la qualità dell’approvvigionamento sanitario in Svizzera è già molto buona. Probabilmente dovremmo garantire una trasparenza ancora maggiore nei confronti degli enti che finanziano le prestazioni, spiegando quale terapia consente di ottenere veramente quali risultati, quanto costa e quali effetti ha a lungo termine. Molte terapie che in un primo tempo appaiono costose si rivelano poi vantaggiose. Inoltre, vista la complessità dei metodi e delle patologie, nell’ambito della neurologia abbiamo bisogno di più personale altamente specializzato: medici, infermieri e terapisti.

A proposito di specializzazione: alla luce dell’evoluzione demografica ritiene che presto in Svizzera ci vorranno altri Centri Parkinson oltre ai due di Zihlschlacht e Tschugg?

No, non credo. A medio termine, la capacità di questi due Centri è sufficiente. Ciò di cui invece abbiamo bisogno sono centri di neuroriabilitazione specializzati che si concentrano su un campo stabilito, come il Parkinson, la SM o l’ictus. Ciò comprime i costi e incrementa tanto l’efficienza dell’ospedale, quanto la qualità dei trattamenti. Se in più i centri specializzati collaborassero maggiormente nell’ambito della ricerca e della casistica, si potrebbe ottenere una migliore sensibilizzazione dei dirigenti delle casse.
Sempre a proposito di trattamento differenziato, reputo che sarebbe altresì importante promuovere la sensibilità e la conoscenza in relazione alle sindromi parkinsoniane atipiche, quali ad esempio l’atrofia multisistemica (MSA) o la paralisi sopranucleare progressiva (PSP). Queste patologie rappresentano fino al 25% di tutti i casi di Parkinson, eppure sono ancora poco studiate e spesso presentano un decorso completamente diverso da quello della sindrome di Parkinson idiopatico. Sovente in ambito ambulatoriale non viene posta una diagnosi corretta, poiché soprattutto a uno stadio precoce può essere molto difficile operare una distinzione. Spesso il trattamento stazionario rappresenta l’unica possibilità di giungere a una diagnosi definitiva. Dato che nel caso delle sindromi atipiche i normali farmaci antiparkinsoniani sono poco efficaci, assumono un’importanza ancora maggiore le terapie accompagnatorie, l’istruzione sull’uso dei mezzi ausiliari e l’assistenza infermieristica.

E come vede lei il futuro della normale riabilitazione del Parkinson? Ci sono novità che promettono maggiori successi terapeutici?

I progressi sono costanti. Oltre a compiere esperimenti con le terapie computerizzate, ad esempio con l’ausilio della console di gioco Wii, si sta pensando di utilizzare anche nel Parkinson i dispositivi robotici concepiti per la riabilitazione post-ictus. Inoltre, in collaborazione con l’ETH stiamo sviluppando uno stimolatore che i pazienti parkinsoniani potranno utilizzare nel caso di blocchi improvvisi, ovvero del cosiddetto freezing.
Parallelamente è in corso anche un progetto pilota del nostro ergoterapista Roger Stadelmann, che ha avuto l’idea di introdurre nella terapia la «Slackline», ovvero una fettuccia elastica solitamente usata nel tempo libero che viene tesa fra due alberi per divertirsi a camminare in equilibrio. Per il suo lavoro di diploma, Stadelmann ha effettuato delle prove con pazienti malati di sclerosi multipla o reduci da un ictus, constatando che l’uso della Slackline aiuta a migliorare l’equilibrio, la coordinazione, l’ampiezza dei movimenti e anche la concentrazione. Ora verificheremo se anche nel Parkinson si possono ottenere effetti positivi.

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